Il bacino aquilano è una delle maggiori depressioni di origine tettonica presenti all’interno del territorio abruzzese. L’assetto attuale della conca aquilana è andato definendosi nel Quaternario, ossia nel corso degli ultimi 2,6 milioni di anni. Durante la sua fase iniziale esso costituiva un bacino chiuso nella cerchia dei monti appenninici, formatisi durante le ultime fasi dell’orogenesi alpina, ed era occupato da un grande lago che andava da Cagnano Amiterno fino a Goriano Sicoli (ramo occidentale) e dalla piana di Navelli fino a San Benedetto in Perillis (ramo orientale). Il clima particolare favorì il fiorire di una fauna e di una flora diverse dalle attuali: vi erano rinoceronti, ippopotami e altri animali che oggi non sono più presenti sul territorio a causa dei cambiamenti climatici ed alla caccia dell’uomo. Della fauna che frequentava le rive dell’antico lago sono state trovate diverse tracce fossili, ma il ritrovamento più eccezionale è senza dubbio quello annunciato dai giornali il 25 marzo del 1954: Si tratta di uno scheletro di un gigantesco animale preistorico, trovato nella cava di argilla, di proprietà della ditta Santarelli a Madonna Della Strada, Scoppito (AQ). La specie a cui appartiene il mammut, dal momento del suo ritrovamento ad oggi, ha cambiato più volte nome scientifico: Elephas meridionalis – negli anni ’50; Elephas meridionalis vestinus – sottospecie istituita nel 1972 per la mole maggiore, le difese più lunghe ed il cranio più sviluppato in altezza; Archidiskodon meridionalis vestinus – dal 1977 fino a metà degli anni ’90; Mammuthus meridionalis vestinus – dopo il 1995.

Lo scheletro databile intorno ad un milione e trecentomila anni fa (Pleistocene inferiore), nel momento del ritrovamento era quasi completo, in perfetto stato di fossilizzazione; mancavo la zanna sinistra, la parte posteriore destra del cranio, frammenti dei piedi. L’altezza è di 3,75 metri al garrese e 4,40 al vertice del cranio, la lunghezza, dalla punta della zanna superstite all’estremità della coda, è di 6,50 metri. Il peso dell’animale vivo doveva superare le 16 tonnellate: circa il doppio di quello degli elefanti attuali. Si tratta di un esemplare di sesso maschile di età molto avanzata. Grazie agli studi svolti sullo scheletro possiamo ipotizzare che il mammut sia morto di vecchiaia e che la sua carcassa sia stata spinta dalle correnti di riflusso verso il lago. L’ipotesi che l’affondamento nel lago sia avvenuto post mortem è avvalorata dalla posizione della testa reclinata sul lato sinistro e non rovesciata, come negli animali morti per annegamento. Esiste tuttavia la possibilità che ad ucciderlo sia stata una di quelle trappole naturali pericolose per gli animali di grossa mole. Il nostro Mammut potrebbe essere sceso nelle acque del lago per dissetarsi e di conseguenza essere rimasto imprigionato nel fango fino a morire di inedia.

Ma come avvenne la scoperta dello scheletro? A raccontarcelo è il Sig. Michele Rosato Giuseppe, colui che trovò la zanna per puro caso: “Quel giorno il mio capo mi disse di andare a livellare una zona della cava. Mentre stavo lavorando con la zappa ho toccato qualcosa di duro, dalla forma strana, tant’è che andai subito all’ufficio per segnalare la cosa. Inizialmente pensavo si trattasse di una bomba inesplosa, perché i tedeschi durante la guerra avevano minato una zona lì vicino, quindi avevo paura che urtandola potesse esplodere. All’ufficio invece mi dissero di continuare a lavorare, di fare attenzione e scavarci intorno per capire di cosa si trattasse. È così che trovai la zanna. Gli altri operai vennero subito ad aiutarmi e scavando vennero fuori altre ossa. Il giorno dopo da un istituto di Roma arrivarono tre uomini e una donna se ricordo bene, per scavarlo e rimuoverlo. Quei giorni fu impossibile lavorare a causa della quantità di persone che venivano per vedere il mammut. Una volta rimosso lo scheletro, lo schedarono e lo misero in alcune cassette che vennero caricate su un camion e portate a Roma.”

Nonostante siano passati 60 anni il Sig. Michele Rosato Giuseppe si ricorda molto bene. Dello scavo e del restauro del reperto fu incaricato l’Istituto di Geologia e Paleontologia dell’Università di Roma, che vi provvide sotto la direzione della prof.ssa Angiola Maria Maccagno. Le operazioni di recupero iniziarono il 26 marzo del 1954 e si conclusero il 15 maggio. Lo studio ed il restauro delle ossa richiesero due anni di lavoro. Le parti mancanti furono ricostruite con l’ausilio dell’osso simmetrico e grazie al confronto con pezzi omologhi precedentemente descritti dagli autori. Il mammuth tornò a L’Aquila nel 1958, dove fu montato nel bastione orientale del Castello cinquecentesco ed esposto al pubblico. Negli anni ’80 a seguito del distacco di alcuni frammenti dello scheletro e dalla polverizzazione della parte spugnosa delle ossa, si rese indispensabile un secondo intervento di restauro che si concluse nel giugno del 1991. L’intervento fu effettuato parte sul posto, e parte presso il Laboratorio di restauro del Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Firenze. Con questo restauro si eliminarono le pesanti strutture metalliche che sostenevano l’originale, rendendo così più suggestiva l’esposizione del reperto. L’ultimo intervento di restauro è stato eseguito nel 2013, grazie alla donazione dalla Guardi di Finanza. Lo scheletro presentava molte lesioni in prossimità di particolari punti di contatto tra la struttura metallica e lo scheletro, e in prossimità di punti di contatto tra le ossa: probabile conseguenza dell’effetto del sisma. In più il tessuto osseo appariva degradato e fragile, era necessario quindi un intervento di restauro conservativo. Si è quindi delineata l’occasione di poter intervenire anche sull’aspetto estetico: restituire allo scheletro un’armonia tra parti originali e parti ricostruite, sia pur mantenendole ben distinguibili tra loro. Purtroppo oggi il Mammut non è visitabile a causa dei danni provocati dal terremoto del 2009 al Castello Cinquecentesco, dove sono ancora in corso i lavori.
A cura di Veronica Recchiuti

Fonti e bibliografia:
- http://www.mammuthusmuseo.com (sito ufficiale MIBACT Abruzzo e Guardia Di Finanza)
- L’Elephas meridionalis nel Museo Nazionale d’Abruzzo, collana “quaderni didattici” n.2 – 1985. Soprintendenza per i beni ambientali architettonici artistici e storici per l’Abruzzo – L’Aquila
- https://youtu.be/HzFv5_mjFWE (video del restauro)